Ciak... Si vota! Pubblichiamo il discorso di chiusura della campagna elettorale del candidato sindaco Roberto Balzani per il Comune di Forlì.

Buonasera, Forlì.

Ringrazio vivamente tutti gl’intervenuti e la famiglia di Luca Missiroli, che è stata d’accordo nel concludere questa campagna così come avevamo pensato di fare, nonostante gli ovvi pareri contrastanti presenti fra noi. Non vogliamo strumentalizzare né essere strumentalizzati: non vogliamo acuire il dolore legittimo delle persone. La cosa tragica che è accaduta con la politica non c’entra nulla, lo dico a chiare lettere, e non deve interferire nel modo più assoluto con il giudizio che ciascuno di voi deve esprimere circa un programma elettorale. Speriamo che, una volta tanto, anche i nostri avversari più sguaiati se ne ricordino e abbiamo almeno rispetto. Non chiediamo altro. Solo rispetto.

Non so a voi, ma a me capita di tanto in tanto di guardare indietro e di capire (o cercare di capire) che cosa è accaduto. In questo momento non è facile: vivo come allucinato, tenuto in piedi dalle scariche di adrenalina e dallo stress. Mia moglie, quelle rare volte che sono in casa, vorrebbe costringermi a fermarmi: ma io salto da un pensiero all’altro, da un posto all’altro, sempre in perenne movimento come un topo ballerino. E dire che mi sentivo il prototipo del babbo pantofolaio!

Ho cercato di guardare indietro. E ho visto otto mesi di campagna elettorale durissima, lo stravolgimento completo della mia vita e di quella di molte altre persone, l’annientamento degli spazi privati, la trasformazione forzata dei miei stessi processi di apprendimento (da logici e prevalentemente scritti ad analogici e prevalentemente orali o visuali), l’alterazione dei cicli del sonno e di quelli della nutrizione. Un impatto così brutale l’avevo vissuto solo al Campo addestramento reclute di Falconara, oltre vent’anni fa. Ma per un tempo assai più breve.

Ora, perché sono entrato in questo frullatore? Certo, l’ambizione e il narcisismo hanno fatto la loro parte, inutile negarlo. Però non bastano. Sicuramente, non per avidità di denaro: appartengo a quel genere d’uomini così sobri da rischiare la trasandatezza, se il loro decoro non fosse sorvegliato da mogli attente e di buon gusto. Sicuramente, non per brama di potere: a me non piacciono le relazioni gerarchiche, mentre mi sento a mio agio in condizioni di parità. Il che, nella vita, mi ha procurato qualche problema. Come quando – ricordo – un giorno, da piccolo, all’oratorio di San Luigi, dovendo dirimere una classica questione di composizione di squadre di calcio fra ragazzini, fui sbeffeggiato per il solo fatto che avevo suggerito si potesse votare anziché usare il solo metodo: i bravi da una parte, gli scarsi dall’altra. Ci rimasi malissimo, ma poi mi rassegnai, e andai a fare il terzino nella squadra degli scarsi.

Dunque, potere no. E allora? Sono tornato dalla mia Facoltà, a Ravenna, l’altro pomeriggio e, mentre guidavo, ho guardato il grano che cresce nei nostri campi, già alto, e poi le colline di un grigio via via sempre più estenuato, fino stingersi nel profilo azzurro dell’Appennino più remoto. E poi i cumuli che pascolavano nel cielo, pacifici e naturali funghi atomici; e infine gli argini lussureggianti del fiume Montone. E mi sono ricordato di una cosa che mi aveva raccontato il mio babbo tanti anni fa: un’estate, credo del ’42, durante la folle corsa dell’Armata italiana verso il disastro del Don, aveva visto sbalordito, nella sterminata pianura ucraina, il miraggio della Fata Morgana: una città lontana lontana, la cui immagine appariva come fluttuante nel cielo, nitidissima. Anche a me, l’altro giorno, sarebbe piaciuto vedere la Fata Morgana: la Forlì del futuro stagliarsi sulla linea verde della nostra terra. Ma non per sapere che cosa sarà di noi: ma per la curiosità di capire che cosa saremo riusciti a costruire per i nostri figli e per i nostri nipoti.

Insomma, tutto questo ha un senso solo se è volto al fare, al realizzare. Ed io credo che noi, in questi mesi – noi centro-sinistra, noi partititi, movimenti, liste civiche – abbiamo fatto uno sforzo grande per disegnare un futuro alla portata della nostra città. Diciamocelo: eravamo tutti un po’ disperati. Disperavamo del paese, di noi stessi. Disperavamo della possibilità di uscire dal presente continuo, dalla percezione alterata di non avere mai tempo per progettare se non a breve, a brevissimo termine. Non c’era solo la virtualità dell’economia di carta: anche le nostre vite stavano virtualizzandosi, stavano per trasformarsi (o in parte già si erano trasformate) in involucri abitati da personalità banali o alienate. Non per scelta, ma per spirito di rinuncia: tanto, a che pro? A che serve? Che importa battersi?

Invece, importa. E il vento del cambiamento che ha cominciato a spirare forte, anche nel quadrante del nostro Occidente, ci ha risvegliati dal torpore. Otto mesi di campagna elettorale hanno cambiato molte vite, a Forlì. Ci sono donne, giovani, persone mature che – in questo periodo – hanno ritrovato il gusto antico della partecipazione civica, rendendosi disponibili ad ascoltare, a captare quello che la società esprimeva, e, nello stesso tempo, a pensare a progetti e a soluzioni possibili, plausibili, realizzabili. Nessun altro schieramento politico, a Forlì, ha prodotto idee dettagliate e precise come il nostro. Nessun altro schieramento politico può esibire un potenziale d’intelligenze tecniche, di capacità imprenditoriali, di analisi sociali lontanamente paragonabile a quello che abbiamo mobilitato noi. E che è anche qui, questa sera, in questa piazza straordinaria.

Noi non vendiamo slogan. Non vendiamo teorie semplificate della realtà. E’ comodo dire “accoglienza” e insieme “via i marocchini”, per salvare l’anima e parlare alla pancia. E’ comodo dire “centro storico: salotto della città” e poi “vogliamo le auto in piazza Saffi”. Come se non vedessimo tutti che il modello del pressoché libero accesso al centro – fatte salve una piazza e due strade – non ha salvato, ma ha definitivamente trafitto il cuore dell’identità urbana. E ve lo dice uno che nel centro storico abita da sempre e che nel centro storico, anche quando tutti fuggivano, ha continuato a investire, sistemando la casa di famiglia: non uno che ci va per caso a passeggiare. Anche questo è un modo di parlare di politica, barando: evocare un’immagine per mettersi a posto la coscienza, e poi smentirla nei fatti. Per convenienza. Facile. Comodo.

Noi non abbiamo barato. Siamo consapevoli che governare sarà duro e che i prossimi mesi, per molte famiglie forlivesi, saranno peggiori di quelli che abbiamo alle spalle. Siamo consapevoli che ci sarà un’emergenza sociale da affrontare, di cui abbiamo avuto fino ad ora solo una tenue anticipazione. E siamo pronti a fare la nostra parte, per sostenere i lavoratori disoccupati e per supportare le imprese in una difficile transizione. Perché il sistema produttivo e il capitale umano che vi è impiegato sono una risorsa preziosa, che non può essere abbandonata alle inconsistenti promesse dell’unico governo europeo che – nei confronti della più forte crisi degl’ultimi 35 anni, se non degli ultimi 80 anni – ha prima minimizzato, poi negato, poi annunciato anzitempo la fine del ciclo negativo, infine rimosso il tema dalla campagna elettorale. La crisi, cari cittadine e cari cittadini, ve la state figurando voi: è un parto della vostra immaginazione. La crisi non esiste: questo vorrebbero che credessimo.

Ma noi non abbiamo barato. Vedete, se tante persone hanno deciso che era ora di uscire dalle proprie case e di camminare insieme – come avevano fatto il loro bisnonni nei circoli e nelle leghe, e poi i loro nonni nei municipi, e i loro padri nella Resistenza -, ciò è avvenuto perché abbiamo capito una cosa: il futuro non ce lo regalerà nessuno. Né Berlusconi, né nessun altro. Dovremo fare come abbiamo fatto nei momenti più delicati e importanti della vita della nostra comunità: dovremo rimboccarci le maniche e lavorare. E io sono qui per questo. Prometto cinque anni di lavoro durissimo alla gente di Forlì per noi, per i nostri figli, per i nostri nipoti, per i nostri vecchi. Ho sempre lavorato senza risparmio – perché non ho paura né della fatica fisica, né di quella intellettuale – e continuerò a farlo in un altro modo, spero a vantaggio di tutta la collettività. Poi tornerò a casa, da bravo Cincinnato del XXI secolo: perché la politica o è servizio o finisce quasi sempre nell’abuso di potere.

Perché insisto sul lavoro? Perché lavoro e sviluppo di qualità daranno a Forlì una nuova spinta. Vedete: noi siamo come in un campo seminato. La semina è stata abbondante: welfare, formazione di qualità, università, il completamento di storiche infrastrutture. Ora si tratta di far crescere le piante. E le piante debbono cominciare a parlare tra loro, anche se ciascuna ha una propria lingua. L’universo dell’impresa e della produzione parla poco con l’Università; l’amministrazione potrebbe farlo con tutte e due, ma spesso non ha traduttori efficaci; e poi c’è da mettere in comunicazione il livello politico/amministrativo con la gente comune, più semplice, che sarebbe disposta a seguire una grande idea collettiva. Ma questa idea non l’ha ancora vista, non la percepisce. Percepisce, invece, pezzi, frammenti del nostro universo urbano e suburbano. Alcuni sembrano combaciare – tipo mattoncini del Lego -, altri no. E si chiede come fare a non sprecare tanta energia…

Noi, noi della grande alleanza per Forlì, una visione del futuro ce l’abbiamo. E, come vedete, non stiamo qui a discutere i programmi degli altri. Noi vogliamo dirvi che cosa faremo noi, che impegni assumiamo nei vostri confronti. Anzitutto, partiamo da una premessa: il 2008 rappresenta uno spartiacque non solo nella vita di Forlì, ma dell’intero sistema occidentale. Sono accadute cose incredibili e inimmaginabili nell’anno trascorso (la fine del ciclo pluridecennale dell’economia finanziaria, un afroamericano alla Casa Bianca), i cui effetti dureranno a lungo nel tempo. E noi non possiamo far finta che, anche nella nostra piccola realtà, le cose possano andare come prima, magari rabberciate appena un po’.

Abbiamo di fronte a noi un bivio: o fare il salto, o stare a guardare, fermi, sulla riva, quello che accadrà. Noi siamo per il cambiamento. Noi siamo per fare il salto subito. E ciò significa, in primo luogo, alla Forlì/Babele, alla Forlì del pulviscolo aggregativo e dei soggetti, istituzionali e non, spesso iper-loquaci ma poco connessi fra loro, sostituire una Forlì comunitaria e coesa, imperniata sulla solidarietà, sulla partecipazione e sull’efficienza: una Forlì che parli una lingua comune e nuova. Per far questo, va strappato il sipario consunto del consociativismo vecchio stile: abbiamo il coraggio di dirci, tutti, che il conflitto, in una società con risorse in diminuzione non solo esiste, ma rischia di produrre sfracelli, se viene negato e se non viene governato. Il conflitto sociale c’è, c’è sempre stato. Bisogna guardarlo negli occhi con coraggio.

Dunque, la visione. La visione è quella di un comunità che mette insieme i giacimenti di solidarietà e di disponibilità al bene comune che sono presenti nei quartieri, nelle circoscrizioni, nelle parrocchie, nelle frazioni di campagna, e li convoglia a difesa del nostro welfare: assistenza, sanità, formazione. Tutela degli spazi di vita collettiva e di aggregazione sociali sorti intorno ai nostri bellissimi parchi, in centro come nella periferia e nel forese. Tutela di una vita sana, sportiva, a contatto con la natura, potenziata da percorsi ciclabili ovunque possibile, da una pedonalità lenta e consapevole. Il polmone verde del nostro comune è ciò che più piace ai cittadini: l’idea che il paesaggio è patrimonio e costruisce, insieme a questo formidabile sistema di piazze centrali, il nucleo della nostra identità. Non possiamo distruggerlo: dobbiamo preservarlo il più possibile intatto per le nuove generazioni.

E poi, accanto al giacimento di solidarietà che le forze politiche popolari del XX secolo hanno creato – contro l’egoismo sociale, l’esclusivismo e il razzismo delle destre (quelle che oggi vorrebbero fare a pezzi questo sistema per creare una massa di elettori alienati e orientabili a comando, sulla base di slogan banali e semplicistici) – la visione pone una potente innovazione. L’innovazione di una nuova qualità dello sviluppo, fondata sul risparmio delle risorse non riproducibili (territorio ed energia “tradizionale”, in primo luogo) e sull’investimento in tecnologia per la produzione di energia pulita, per il riciclo del rifiuto, per un forte incremento dell’accessibilità – via rete – ai servizi della pubblica amministrazione. Abbiamo una generazione di tecnici, di professionisti e d’imprenditori pronti ad accogliere questa sfida: dobbiamo spingere in questa direzione, creando una triangolazione efficace fra amministrazione, impresa e università, utilizzando tutte le risorse giovani che abbiamo, potenziando la comparazione a livello nazionale e internazionale e la ricerca di “casi virtuosi” cui ispirarci. Ho già cominciato, durante la campagna elettorale, a studiare e a imparare: sindaci brillanti, come quello di Mentebelluna, nella Marca Trevigiana, sono venuti a portarci il conforto delle loro politiche. Si può fare.

Si può fare, uscendo dal municipalismo più gretto, aprendo Forlì. Aprendola all’Europa, aprendola alla virtuosa competizione con le altre realtà, aprendola al comprensorio e alla Romagna. Troppe volte ci diciamo “bravi” da soli: questa è la voce del municipalismo deteriore, autoreferenziale e sostanzialmente geloso di mantenere inalterati i propri privilegi. Noi non cercheremo medaglie; cercheremo occasioni di miglioramento. E lo faremo, perché una generazione nuova si è affacciata alla ribalta di Forlì. E questa generazione, formatasi spesso fuori o nell’indifferenza di quella preesistente, sa quanto è dura la vita per affermarsi. Non cerca sconti. Cerca opportunità per sviluppare il territorio e sviluppare le proprie idee e le proprie potenzialità.

La parte migliore della ricerca, dei ceti innovativi, dei nuovi produttori di ricchezza, di chi guarda fuori per crescere sono già con noi, nelle nostre liste. Noi rappresentiamo insieme la grande tradizione sociale di quella generazione di lavoratori che ha fatto Forlì nella Ricostruzione e che ha realizzato la democrazia a Forlì nel XX secolo, e la nuova avanguardia degli attori del cambiamento: quelli che non badano agli slogan ma creano, inventano, risolvono problemi, velocizzano. Questi ceti, che hanno i piedi qui e la testa nel mondo, sono con noi.

Ecco perché noi siamo il vero cambiamento. Verranno a chiedervi il voto sulla base delle paure e degl’incubi peggiori, evocando la riserva indiana o le crociate. Verranno a chiedervi il voto sostenendo che noi siamo espressione dei “poteri forti”, di un modello amministrativo giunto al capolinea. Non è vero. I “poteri forti” hanno già scelto altri cavalli: ve lo assicuro. Noi siamo i protagonisti, oggi, a Forlì, qui e ora, di un formidabile laboratorio di democrazia, i cui processi costituitivi sono stati visibili alla luce del sole: tanto sul versante dei conflitti, che ci sono stati, così come i confronti duri e gli scontri, quanto della condivisione autentica della rinascita del modello democratico. Non più ideologico, ma creato dalla partecipazione dal basso e dalla possibilità di catalizzare energie in trasformazione. Una campagna ideologica, vecchio stile, in questa campagna elettorale l’ha fatta semmai la destra, pescando a piene mani nelle stereotipo e nel luogo comune.

Cara Forlì, io sono orgogliosa di aver accompagnato questo processo, che il mio amico Marc Lazar, che scrive su “Repubblica”, aveva stimato in dicembre impossibile: “non riuscirai a tenere insieme tutto. Il tempo è troppo poco”. E invece il tempo è bastato, perché le elezioni sono come un grande acceleratore di particelle: il mutamento di stato avviene più rapidamente che in condizioni normali. Così è accaduto che il cuore antico e quello nuovo cominciassero a battere all’unisono. Non era scontato. Altrove non è accaduto. Qui sì.

Cara Forlì, noi promettiamo di non tradire la tua memoria. Abbiamo amato e amiamo quelle vecchie case che i tuoi abitanti fino a poco anni fa trovavano assai brutte; ci perdiamo estasiati fra gli scorci antichi di quella che Antonio Cederna più di cinquant’anni fa chiamava “la piccola ellissi”, il cuore sacro della città, fra il Duomo e la Trinità. Posiamo lo sguardo attento su splendidi dettagli decorativi: architravi, portoni, inferriate, che ancora resistono al degrado. No, non siamo forlivesi dell’ultima ora. Portiamo dentro di noi la passione secolare di questa gente.

Già, la passione secolare degli artigiani delle compagnie degli orti, delle filandaie, dei braccianti internazionalisti di Germanico Piselli; dei mezzadri di Giuseppe Gaudenzi; la passione innovativa dei preti modernisti d’inizio Novecento; la passione patriottica e rivoluzionaria delle brigate partigiane; la passione repubblicana delle donne e degli uomini del magico 2 giugno 1946, con il mondo nuovo dischiuso dall’amministrazione di Franco Agosto.

Tutto questo siamo noi: gli eredi, gli epigoni della civiltà democratica di Forlì. La civiltà che ha fatto la scuola popolare, che ha creato i servizi pubblici, che ha orgogliosamente eretto i suoi ospedali come un tempo si erano elevate al cielo le abbazie e le cattedrali. Noi non dimentichiamo da dove veniamo: e ci basta una lapide per riaprire la porta della memoria collettiva. Noi siamo fieri di ciò che è stato costruito, delle fatiche e dei sacrifici di chi è venuto prima di noi.

Adesso tocca a noi dare il nostro contributo. Lo facciamo come lo sa fare una generazione nuova, con l’entusiasmo negli occhi e la forza muscolare e il sangue che pulsa forte nelle vene. Non chiediamo sconti e vogliamo essere messi alla prova. Siamo consapevoli che questa un’occasione storica: lo spirito del tempo, la condizione locale, il convergere di potenziale intellettuale, la disponibilità assolutamente straordinaria di donne e di uomini convinti del nostro progetto, rendono questa una temperie irripetibile. Sappiamo di aver assunto su di noi una quantità di responsabilità impressionante; di essere i terminali di incredibili aspettative: non è facile – vi assicuro – vivere così.

Però avevo preso un impegno, una sera di dicembre. E l’impegno era questo: non una campagna elettorale ordinaria. Piuttosto, una campagna elettorale straordinaria, per un’epoca straordinaria della nostra vita e della vita della nostra città.

Ho cercato di onorare quell’impegno e di portare tutte le energie che potevo raccogliere in questo posto, in questa ora, davanti al monumento di Aurelio Saffi. Ora sono compresse, come nell’attimo di silenzio prima dell’ultima carica, quando solo le nuvole strappate dal vento disegnano la cornice irreale di un’atmosfera sospesa. Gli zoccoli pestano il terreno. I cavalli mordono il freno rabbiosamente.

Non è stato facile arrivare fino a qui. E ringrazio tutti quelli che mi ci hanno portato. Sono tantissimi, e hanno lavorato senza risparmio, per mesi. Sono gli eroi silenziosi di un’avventura che resterà nella storia di questa città per molto, molto tempo. Ringrazio anche la mia famiglia, che ha accettato fino in fondo questa follia per spirito di servizio al futuro della città e perché anch’essa ha creduto nel progetto comune.

Ora vedete, io ho onorato il patto con i miei elettori e con i miei amici: ho dato tutto me stesso alla causa, ogni fibra dei miei muscoli, ogni attimo del mio tempo, ogni pensiero del mio cuore. Sono consapevole di tutte le difficoltà che verranno. Ma adesso, mentre vi guardo, so di aver fatto fino in fondo il mio dovere. E sono esausto e insieme felice.

Coraggio, Forlì. Andiamo avanti!


2 commenti

fausto pardolesi · 6 Giugno 2009 alle 8:08 pm

ultimo sforzo contattiamo tutti gli amici i parenti e i conoscenti chiediamo il voto:
per Balzani,
per i VERDI PER BALZANI,
per i VERDI in Provincia.

luigi bisicchia · 10 Giugno 2009 alle 8:43 am

Conosco Roberto Balzani come Presidente nazionale dell’Associazione Mazziniana Italiana, ma mi interessano anche gli altri argomenti ce vengono trattati – come ricerca storica e informazione – sui problemi ambientali e di difesa del territorio dal degrado; cultore della presenza democratica alla base delle aggregazioni, che parte ovviamente dal Comune, crea la ulteriore ansia che almeno a quel livello vi sia la democrazia senza aggettiv squalificanti (democrazia popolare, democrazia controllata, democrazia paravento).
Auguri…

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