di GIOVANNI LOSAVIO 16 Maggio 2014
L’ntervento all’iniziativa di Mirandola 4 maggio 2014 sulla ricostruzione post-terremoto e le ragioni, di merito e di diritto, per cui non si può parlare di restauro se non è “come era”(m.p.g.)
Non è mai accaduto, io credo, che si sia andati in piazza per rivendicare il restauro. Lo abbiamo fatto oggi, convocando questa assemblea, possiamo dire di popolo?, convinti che per il patrimonio storico e artistico colpito in Emilia dal sisma del maggio 2012 il restauro sia l’unica cura possibile, perciò doverosa. Doverosa perché prescritta dalla vincolante disciplina del codice dei beni culturali e del paesaggio. E perché convinti che il modello di intervento del dove era ma non come era, coltivato e annunciato anche in sede responsabile (o comunque prospettato come una ipotesi da considerare), non sia il restauro prescritto dal codice. E paradossalmente quel modello, ove fosse adottato, escluderebbe la competenza istituzionale delle soprintendenze che sono addette alle sole misure conservative analiticamente descritte nell’art. 29 del codice.
Per gli interventi innovativi cessa, vien meno, la competenza istituzionale di tutela e anzi il libero intervento postula, a rigore, la revoca del vincolo conservativo. Cercherò di spiegarmi. Anche, anzi Innanzitutto, dalla culturetta accademica del restauro innovativo e attualizzante, non è stata ancora registrata la principale novità del codice del 2004 – 2008. Il codice non solo ha enunciato esplicitamente le finalità della tutela essenzialmente conservativa, che erano rimaste implicite nella asciutta e gloriosa legge 1089 del 1939, ma ha dettato le prescrizioni vincolanti sui modi attraverso i quali quelle finalità sono perseguite.
Non credo che sia una constatazione originale: la legge del 1939 (rimasta in vigore fino al testo unico del 1999, quindi sessant’anni) non pronuncia in alcuna delle sue disposizioni la parola “restauro” e si affida alla discrezione tecnica e alla cultura del soprintendente per il controllo, l’approvazione, dice così, delle “opere” che incidono sul bene di riconosciuto interesse storico e artistico. Lo fa nella presupposizione che sia compito riservato alla cultura elaborare principi e criteri della tutela e che i funzionari addetti, i soprintendenti, si alimentino di quella cultura. Con risultati di ampia discrezionalità in pratica incontrollabile, il cui esercizio sfugge a verifiche di legittimità, rimanendo esposto al solo giudizio e alla eventuale sanzione di riprovazione della opinione pubblica colta. Ricordiamo le preoccupazioni manifestate da Cesare Brandi per la arbitrarietà della prassi dei restauri da lui diffusamente constatata.
Il codice ha invece intenzionalmente ristretto quell’ambito di discrezionalità e ha dettato stringenti prescrizioni di conservazione del patrimonio culturale, che vuole assicurata da coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione, manutenzione e infine restauro. E intende il restauro come l’intervento sul bene attraverso un complesso di operazioni finalizzate alla integrità materiale e al recupero del bene, alla protezione e alla trasmissione dei suoi valori culturali. E nelle zone a rischio sismico il restauro comprende l’intervento di miglioramento strutturale. La tutela non può esprimersi dunque che attraverso prevenzione, manutenzione e restauro. Il restauro è diretto ad assicurare la integrità materiale e il recupero del bene così come è stato riconosciuto di interesse culturale.
Recupero, secondo il significato proprio della parola (che è il primo criterio di interpretazione delle norme), presuppone la perdita della integrità materiale del bene, che appunto deve essere ricostituita nell’assetto preesistente in considerazione e ragione del quale il bene è stato riconosciuto di interesse culturale, perché i suoi propri valori possano essere trasmessi. Le competenze della tutela, e dei suoi operatori addetti, sono oggi rigorosamente circoscritte, si esercitano, torniamo a dire, nei soli modi di prevenzione, manutenzione e restauro e non è data alternativa al recupero della integrità materiale perduta. Il modello dell’intervento non può non essere il bene come era nel momento della subita perdita della sua integrità. Non è concettualmente dato un diverso modello dell’intervento, perché la competenza di tutela è meramente conservativa e non dispone di alcun criterio obbiettivo e verificabile per opere innovative. Come sono gli innesti modernizzanti sulle strutture del bene sopravvissute all’evento traumatico, voluti e concepiti nella ambizione sbagliata di conferire diversi e arbitrari significati al bene danneggiato e perfino dettati dalla considerazione cinica dell’evento drammatico come la opportunità data a manipolazioni dirette alla pretesa attualizzazione del bene culturale, contro la sua identità storica. Una attitudine che riflette a ben vedere la insofferenza dei confini concettuali posti alla funzione del restauro, subìti come costrittivi della libera progettualità. Ma la libera progettualità si esprime in un altro mestiere che non sia quello del restauratore.
Insomma la formula accreditata impropriamente dalle stesse istituzioni territoriali della tutela (pur come ipotesi da considerare e la incertezza della determinazione definitiva al riguardo non è l’ultima ragione dei ritardati interventi fino ad ora limitati, a due anni dal sisma, alla messa in sicurezza, neppur completata), quella formula contrasta con il vincolante modello normativo di restauro – recupero per la ragione che l’intervento che rifiuti il modello del bene nella sua preesistente integrità (che non sia motivato dalla esigenza del miglioramento strutturale) è espressione di quella discrezione libera e incontrollabile che il codice ha inteso sottrarre agli operatori della tutela perché contrasta con la finalità conservativa dei valori culturali propri del bene. Neppure è dunque concettualmente ammissibile condizionare la praticabilità del restauro alla entità dei danni, alla misura della struttura superstite (la metà, un terzo, un quarto?), per escludere in ogni caso il ripristino quando i danni, si dice, siano stati totalmente distruttivi, che tali non sono (come è stato constatato) neppure nel caso estremo della Torre dei Modenesi a Finale Emilia che ha conservato non solo la struttura di impostazione – radicamento nel suolo ma ha rivelato ai più recenti sondaggi la preservata e fino ad oggi non conosciuta cella ipogea.
Mentre la esigenza della rigorosa ricostruzione (secondo l’unico obbiettivo modello disponibile che sta nel bene prima del sisma) trova una ulteriore insuperabile ragione se l’edificio è elemento compositivo, parte integrante di un complesso insediamento storico: la continuità del tessuto edilizio non tollera lacune o inserti incoerenti e il risarcimento nei modi del restauro – ripristino di ogni suo autentico elemento compositivo è dovuto in funzione della integrità del centro storico come unitario monumento urbano. Lo dispone la vigente legge urbanistica della regione Emilia Romagna e lo dispongono i vigenti strumenti urbanistici dei Comuni, adeguati alla legge regionale, attraverso una matura disciplina di tutela degli insediamenti storici idonea a far fronte anche a eventi come il sisma straordinari, che incidono diffusamente sulla integrità del patrimonio urbano. La ipotesi, chiamiamola così, del dove era ma non come era (dunque una ricostruzione senza principi anzi eversiva dell’ordine costituito della tutela come definito nel codice dei beni culturali) non avrebbe trovato alcun sostegno, anzi un esplicito divieto nella più matura e vigente disciplina urbanistica.
Ma contro la vantata tradizione di tutela dei suoi centri storici la Regione Emilia Romagna si è data nel dicembre 2012 una apposita legge speciale di ricostruzione che cancella nei comuni colpiti dal sisma la virtuosa normativa di piano regolatore e libera dalla regola del ripristino filologico gli edifici crollati o gravemente danneggiati dal terremoto (la regola che invece varrebbe per ogni altro evento distruttivo!). Italia Nostra già lo ha con preoccupazione segnalato: la legge di ricostruzione pianifica l’abbandono della vigente ordinaria buona urbanistica e sul cattivo modello della legge speciale dell’immediato ultimo dopoguerra affida ai piani di ricostruzione la facoltà di riprogettare radicalmente anche nel disegno degli isolati e della trama viaria gli insediamenti storici che rischiano così di smarrire la loro secolare identità, anche attraverso la delocalizzazione di funzioni essenziali e vitali dai nuclei urbani originari.
Di fronte alla Regione Emilia Romagna che sembra rinnegare la tradizionale politica di salvaguardia dei tessuti urbani storici non rimane allora che fare affidamento sulla responsabilità degli amministratori comunali, altrimenti gelosi degli originali caratteri che attribuiscono ai luoghi di vita delle loro comunità una insopprimibile identità; e dunque consapevoli che dell’eversivo strumento del piano di ricostruzione si impone un impiego del tutto eccezionale e in ogni caso circoscritto a quelle porzioni dell’insediamento che in tempi recenti fossero state gravemente alterate da interventi di trasformazione incompatibili con i principi di tutela della morfologia urbana storica.
Certo è che nei piani di ricostruzione, in questi mesi messi in cantiere, il modello del dove era ma non come era per il patrimonio culturale offeso dal sisma non potrà trovare la legittimazione che a quel modello crediamo sia fermissimamente negata dal codice dei beni culturali e del paesaggio.