In Italia ogni 100 litri di acqua immessi nell’acquedotto, 39 vengono dispersi. Il 60% della rete nazionale è stato posato oltre 30 anni fa, ed un quarto supera le 50 candeline di esercizio.
Di fronte a questo scenario ed ai problemi legati ai cambiamenti climatici, rimaniamo attoniti nel sentire riproporre soluzioni scartate per impatti negativi 30 anni fa, come ad esempio una nuova diga a Pietrapazza.
Ma ancora più scioccante è veder prevedere aumenti dei consumi di oltre il 20%, segno che si prevede in anticipo il fallimento di qualunque tentativo di tutela di questo bene preziosissimo.
E’ evidente che ci sia un problema nella struttura organizzativa: Romagna Acque è una società partecipata dai comuni che fonda il suo business sulla vendita dell’acqua, non sulla sua tutela. Più ne vende, più alti sono i ricavi ed i dividendi per i Comuni che dovrebbero gestire il bene pubblico.
Quindi invece di reinvestire tutto il guadagno in progetti che prevedano una riduzione delle perdite e degli sprechi, alla società conviene proporre progetti per aumentare le vendite.
Per risolvere il problema, dovremmo dedicare ogni risorsa possibile a rinnovare la rete, anche per migliorare la qualità, e proporre progetti innovativi di recupero delle acque dei depuratori: sono anni che lo proponiamo, milioni di metri cubi di acqua che ributtiamo nei fiumi a valle. Occorre finanziare cisterne ed accumuli nelle case e nei palazzi come si fa già nei paesi del sud, progettare interventi negli edifici per il ricircolo dell’acqua, fare formazione e pubblicità per insegnare a risparmiare, riducendo anche il peso delle bollette.
Proporre altri mostri non solo sconvolgerebbe l’equilibrio delle nostre valli, azzopperebbe il turismo che sta aumentando, ma rimanderebbe solo il problema: come se ad un secchio bucato si decidesse di affiancarne un altro paio, invece di tapparne le falle.
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